Riflettori puntati sulle zone d’ombra

di Giorgia Turco – studente – Culture e Tecniche della Moda

Luogo di eterna magia, di arte autentica e, al contempo, di studiata finzione: il circo è da sempre la casa dell’illusione e della spettacolarità, l’espressione più pura di tutto ciò che è  colorato, divertente, esagerato. L’apparenza festante e luminosa, fatta di luci stroboscopiche e personaggi eccentrici, nasconde in realtà un motore instancabile e ben oleato, che spesso rivela uno strano e sottile retrogusto di malinconia: una continua corsa contro il tempo per ideare il nuovo numero, preparare gli attrezzi di scena, indossare il sorriso migliore in una girandola di musica e colori. E cos’è la moda se non questo, un immenso e turbinoso circo? Grande impegno, tanti sacrifici, un’arte non sempre riconosciuta come tale, piena delle sue contraddizioni. Moda e Circo non sono che due mondi vicini di uno stesso universo, quello dominato dall’immagine e dell’apparenza, mondi tanto abbaglianti da non riuscire quasi a scorgere le zone d’ombra che li caratterizzano; eppure, queste esistono, ci sono, e sono, per paradosso, il carburante che fa funzionare al meglio la grande macchina dell’ideazione e della produzione.

Prendiamo, per esempio, la creazione di un abito: appena lo si vedrà indossato dalla nuova it-girl o in una vetrina di Via Condotti si penserà immediatamente allo stilista; di conseguenza, passerà in secondo piano il fatto che dietro a quella stoffa sapientemente cucita ci sia il lavoro instancabile di un modellista – di cui non conosceremo mai il nome – o che dietro a ogni ricamo ci sia la mano esperta di una sarta, la quale magari non si è mai fermata – perché perfezionista e meticolosa – nemmeno per poggiare la testa sul cuscino, pur di rifinire l’abito in tempo per la sfilata incombente. Allo stesso modo, anche dietro al perenne sorriso del clown o all’abilità straordinaria dei contorsionisti, si cela un intero mondo che noi crediamo di riuscire a comprendere, ma del quale non scorgiamo che il più pallido riflesso. Vite che sembrano all’insegna del brio, del divertimento, ma che in realtà sono costellate di sforzi, dello sbagliare per poi ritentare, che si tratti di fare l’equilibrista sospeso a mezz’aria o di provare in tutti i modi a diventare una modella perfetta: in questo caso, però, spesso non c’è rete di protezione e l’affrettare il numero porta inesorabilmente a cadere, finendo così per veder camminare sulle passerelle ragazze che assomigliano grottescamente agli scheletri di Tim Burton. Bellezze smunte e sfiorite, che vengono poste, il più delle volte, come modello di massima aspirazione.

Ecco allora che le sfilate, animate da musica e colori, divengono il migliore degli spettacoli circensi: lo spettatore, estasiato dall’atmosfera sfarzosa e dagli abiti magniloquenti, non si chiede chi abbia montato la passerella, scelto la location o semplicemente pettinato quelle modelle, esattamente come farebbe un bambino che, estasiato dal tripudio di goliardia, non si chiede cosa regga quel tendone bianco e rosso, quanto ci voglia ad imparare quel numero così divertente, eseguito proprio da un ragazzo poco più grande di lui. Questo perché, per quanto quel mondo possa sembrare fatato e straordinario, per stare in piedi, ha bisogno di solide travi, travi che non possono arrugginire e rischiare di cedere all’improvviso; occorre pertanto qualcuno che ricucia immediatamente i buchi del tendone quando si strappa, di qualcuno che, nonostante non si ritrovi illuminato dal riflettore e nonostante svolga il suo lavoro nel buio del retroscena, abbia il compito fondamentale di mandare avanti la grande giostra.

La moda è, quindi, come il circo, un grande iceberg, che nasconde la maggior parte di sé. Non resta che augurarsi che gli applausi finali di ogni sfilata possano riconoscere anche ciò che, pur non vedendosi, c’è: il grande lavoro sotto il livello dell’acqua.

 

Ph. Alexander McQueen backstage: www.daveyoder.photoshelter.com.