The Queer Free Spirit of Art & Fashion: Leigh Bowery

Di Nicola Brajato – Laureando Culture & Tecniche della Moda

Leigh Bowery

È una relazione strana quella tra arte e moda. Si guardano. Si scrutano. Si studiano. Si scambiano sguardi incuriositi. L’attrazione è forte. E cupido non fa che scoccare ripetutamente tra loro il proprio dardo. Arte e moda si abbracciano, si corteggiano, chiacchierano in un simposio che genera collaborazioni degne di memoria. È amore. Ma il loro non è un rapporto vittoriano, chiuso tra le quattro mura di una camera da letto. La loro è una relazione aperta, sempre a caccia di nuove esperienze ed emozioni. E proprio una delle figure più eccentriche della Londra degli anni ’80 decide di diventare l’oggetto di questa fantasia, baricentro del triangolo amoroso: Leigh Bowery.

Fashion designer, artista, performer e provocatore. Un’unica figura in grado di sovvertire, con una tagliente ironia queer, il concetto di corpo come sede principale dell’identità. Il suo involucro umano diventa una tela, un medium per crearsi e rinnovarsi in ogni occasione come un’opera d’arte vivente. Classe 1961. Nasce a Sunshine, in Australia, ma dopo la laurea in Fashion design al Melbourne Institute of Technology nel 1979, decide di trasferirsi a Londra dove avrebbe potuto trovare le migliori idee per le sue creazioni. Ma ciò che inizialmente lo attende è una promettente carriera da Burger King. Le parole che scrive sul suo diario il primo giorno di lavoro ci fanno capire la vera essenza di Leigh:

If I could, I would only wear the clothes I like with my hair and make-up.

The frustration I feel when I see how plain & ugly & conformist I look,

overrides the diffidence & insecurity of wearing & looking the way I really

want. I know I hate having to use public transport or walk in a melée, if I’m dressed

‘up’ , but believe me, that’s heaven compared to being plain.

E le porte del paradiso non ci misero molto ad aprirsi. Nel giro di pochi anni Leigh inizia a frequentare alcuni dei club notturni più famosi come il ChaCha e l’Asylum, locali d’avanguardia che avrebbero potuto garantirgli agganci importanti. Del resto, un soggetto come Mr. Bowery non poteva di certo non essere notato. Arrivano così i primi riconoscimenti pubblici. Dopo la sua performance durante la Performing Clothes Week all’Institute of Contemporary Arts nel 1983 e dopo aver creato gli abiti di scena per il grande coreografo Michael Clark, viene fotografato da Nick Knight per un’editoriale sul fashion magazine i-D. Burger King era ormai diventato un ricordo lontano. Grazie a conoscenze molto influenti nel panorama britannico, come il cantante Boy George e l’imprenditore Tony Gordon, il 31 gennaio 1985 apre il celeberrimo Taboo in Leicester Square, che ben presto diventa la punta di diamante della queer life londinese. Proprio il nome del locale ci può aiutare a comprendere la filosofia dell’arte di Leigh Bowery.

Nella seconda metà degli anni ’80 il conservatorismo di Margaret Thatcher gioca la carta della Clause 28 che vietava espressamente a tutte le «autorità locali» di «promuovere intenzionalmente l’omosessualità o pubblicizzare materiale con l’intento di promuovere l’omosessualità». Così facendo, l’eteronormatività tornava ad essere la norma assoluta e metteva in ombra tutte quelle conquiste per i diritti LGBTQ da Stonewall in poi. Una condizione che barbosamente sottolineava una visione essenzialista della sessualità in un sistema binario che accettava l’assoluto femminile e l’assoluto maschile senza nessuna intersezione tra i due segmenti. E proprio Leigh Bowery arriva come un terrorista per far deragliare il treno dal suo binario culturalmente costruito. La sua arte è pura gender performativity, con il proprio corpo come principale soggetto e oggetto messo al centro della scena. Fa suo quello che Michel Foucault chiama “beneficio del locutore”: «se la sessualità è repressa, cioè desinata alla proibizione, all’inesistenza e al mutismo, il solo fatto di parlarne (o metterla visivamente in discussione aggiungerei), ha un tono di trasgressione deliberata. Colui che adopera questo linguaggio si mette in una certa misura al di fuori del potere; attacca la legge; anticipa, fors’anche di poco, la libertà futura». Quindi soltanto la sua esistenza e la presenza per le strade londinesi sono un chiaro segno di ribellione al conservatorismo della Iron Lady.

Non utilizza l’abito e l’eccesso per shoccare la gente; il suo è un puro approccio alla riscrittura della grammatica del corpo. La sua queerness prende forma in un corpo asessuato, che mette in crisi le categorie socialmente imposte che regolano quell’economia del sesso tanto cara all’eteronormatività. Ogni sua apparizione era curata nei minimi dettagli, dagli outfit studiati e hand-made, fino al make-up e alle movenze. L’obiettivo di ogni performance era il fil rouge di tutta la sua esistenza: andare sempre oltre i confini della convenzione per dare forma all’unicità della sua identità. Tutto torna quando sentiamo le parole dell’amico Boy George che lo definiva “modern art on legs”.

In un’epoca di continua ed esasperata riproducibilità dell’opera d’arte, Leigh Bowery è stato in grado di restare unico ed irripetibile, proprio come un’opera auratica. Ma a differenza di questa, lui non è rimasto sigillato all’interno di quattro mura aspettando migliaia di visitatori, perché la sua è un’unica ed eccezionale fusione tra arte e vita (e moda). Una sintesi che è stata in grado di ispirare alcuni tra i più grandi fashion designer contemporanei come Alexander McQueen, Gareth Pugh, Vivienne Westwood, Jean Paul Gaultier e il neomargeliano John Galliano, che, similmente a lui, sono stati capaci di fare l’abbattimento delle barriere convenzionali il loro punto di forza. Ogni respiro di Leigh, pertanto, è stato – e lo è ancora – una possibilità per fare arte. In quella Londra scelta come suo palcoscenico prediletto, Leigh Bowery era un’opera d’arte che camminava tra i comuni mortali, contrastando – dicendola in termini nietzschiani – quell’Umano, troppo umano, rivendicando per sempre l’esistenza di uno Spirito libero.

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Source: Bowery L. (a cura di Vivienne Webb), Take a Bowery: The art and (larger than) Life of Leigh Bowery, Museum of Contemporary Art, Sydney 2004. Pubblicato in occasione della retrospettiva dedicata all’artista dal 19 dicembre 2003 al 7 marzo 2004; Foucault M., La volontà di sapere – Storia della sessualità 1, Feltrinelli Ed., Milano 2013; video: Leigh Bowery on The clothes show 1988, www.youtube.com/watch?v=om0MrCOXPcE.

Ph.: www.vogue.itwww.pawlok.com, www.now-here-this.timeout.com, www.accordionfile.blogspot.it, www.picasaweb.google.com, www.pinterest.com/boyg/leigh-bowery.